In Prima Linea: I Mediatori Linguistico-Culturali nel Supporto alle Persone Sopravvissute

Sono spesso i primi con cui si può comunicare veramente. Parlano la stessa lingua, a volte condividono la stessa provenienza, magari hanno attraversato percorsi migratori simili. Per questo, quando una persona sopravvissuta alla violenza di genere decide di parlare, spesso lo fa prima con loro: i mediatori linguistico-culturali. Questa posizione privilegiata porta con sé una responsabilità enorme. I mediatori linguistico-culturali si trovano in una posizione unica nel sistema dei servizi di supporto. Non sono semplicemente traduttori o accompagnatori. Sono ponte culturale, primo contatto umano comprensibile, figura di fiducia potenziale in un contesto spesso confuso e spaventante per chi è arrivato da poco, chi non conosce la lingua, chi non capisce come funzionano i servizi. E proprio questa posizione privilegiata li rende destinatari elettivi di rivelazioni spontanee sui traumi migratori e le violenze vissute. Quando qualcuno finalmente trova qualcuno che lo capisce – linguisticamente ma anche culturalmente – la tentazione di aprirsi, di raccontare, di chiedere aiuto diventa fortissima. Ma come si gestisce questa responsabilità? Come ci si comporta quando si è in prima linea?

Francesco Gardona

11/23/20257 min leggere

I Principi Guida Applicati alla Mediazione

I mediatori linguistico-culturali sono tenuti ad applicare gli stessi quattro principi guida che orientano il lavoro di tutti coloro che supportano persone sopravvissute alla violenza di genere: sicurezza, riservatezza, rispetto e non discriminazione.

Ma nello specifico del lavoro di mediazione, questi principi assumono connotazioni particolari che devono caratterizzare il lavoro quotidiano, soprattutto quando i mediatori si trovano a lavorare in autonomia direttamente con le persone sopravvissute.

Sicurezza: Non Mettere a Rischio Chi Si Fida

Il principio di sicurezza per i mediatori significa innanzitutto non mettere a rischio le persone sopravvissute facendo domande ai loro familiari o a membri della loro comunità sugli episodi di violenza riferiti.

Questo è particolarmente delicato nel lavoro sul territorio, a contatto diretto con le comunità. Il mediatore spesso conosce non solo la persona che ha rivelato la violenza, ma anche la sua famiglia, i membri della sua comunità, magari frequenta gli stessi luoghi, partecipa agli stessi eventi. La tentazione di parlare, di chiedere, di coinvolgere altri "per aiutare meglio" può essere forte.

Ma deve essere resistita. Perché mantenere la riservatezza di quanto viene confidato aiuta a garantire alle persone sopravvissute maggiore sicurezza. Una parola detta alla persona sbagliata, anche in buona fede, può mettere in pericolo chi ha avuto il coraggio di parlare.

Rispetto: Le Scelte Appartengono a Chi Le Vive

È importante che le scelte e i desideri delle persone sopravvissute siano rispettati anche quando sono contrari a quello che i mediatori consigliano come percorsi adeguati disponibili.

Questo è forse uno degli aspetti più difficili del lavoro di mediazione. Si hanno conoscenze, si conoscono i servizi, si sa cosa sarebbe "meglio fare". E quando qualcuno che parla la propria lingua, che viene dalla propria cultura, fa scelte che sembrano sbagliate o pericolose, la tentazione di insistere, di convincere, di imporre il proprio punto di vista "per il loro bene" può essere travolgente.

Ma dare informazioni corrette e aggiornate sui servizi fa parte del lavoro dei mediatori. Obbligare qualcuno a seguire i consigli non lo è. La persona sopravvissuta non è tenuta a seguire i suggerimenti al momento stesso in cui sono dati.

I mediatori devono essere consapevoli che il primo passo verso l'autonomia delle persone sopravvissute è la possibilità di scelta sulle azioni da compiere e i tempi in cui compierle. Togliere quella possibilità di scelta, per quanto ben intenzionato possa essere il gesto, significa replicare la dinamica della violenza: qualcun altro che decide per loro cosa debbano fare.

Non Discriminazione: Il Potere delle Parole Giuste

In merito al principio di non discriminazione, è importante avere sempre presente l'attenzione al linguaggio e al vocabolario che si usa negli interventi di mediazione.

Le parole sono potenti. E quelle giuste possono restituire alla persona sopravvissuta la fiducia nelle persone e nei servizi in cui lavorano. Quelle sbagliate – cariche di giudizio, connotate negativamente, discriminatorie – possono invece confermare i peggiori timori della persona: che non sarà capita, che sarà giudicata, che non troverà aiuto.

Lo scopo principale degli interventi di mediazione è la cura della comunicazione che i mediatori fanno. Abbattono le barriere e creano per le persone sopravvissute la possibilità di accedere ai servizi e trovare supporto.

I mediatori devono tenere a mente che né il loro linguaggio verbale né il linguaggio del loro corpo devono in nessun modo rivelare che considerino inappropriato il comportamento, la condotta o le rivelazioni di una persona sopravvissuta a violenza di genere.

Uno sguardo di disapprovazione, un'esitazione nel tradurre, un tono di voce che tradisce giudizio – anche inconsapevolmente – possono chiudere la comunicazione, spingere la persona a ritirarsi, a non cercare più aiuto.

E laddove, per motivi personali, fede, credenze, tradizionali o abitudini culturali, un mediatore non fosse in grado di assicurare una mediazione priva di pregiudizi e discriminazione, è necessario che lasci spazio a colleghi che siano in grado di farlo.

Non è una ammissione di debolezza. È una dimostrazione di professionalità: riconoscere i propri limiti e mettere il benessere della persona assistita prima del proprio ego professionale.

La Posizione in Prima Linea

I mediatori linguistico-culturali sono spesso i primi operatori con cui le persone sopravvissute a violenza migranti o rifugiate possono avere una comunicazione diretta. Questa posizione in prima linea li rende destinatari elettivi di rivelazioni spontanee sui traumi migratori e le violenze vissute.

Perché? Per tre ragioni fondamentali.

Primo, parlano la stessa lingua madre o veicolare delle persone che supportano. Non ci sono filtri linguistici, non c'è bisogno di cercare parole in una lingua straniera per esprimere cose già difficilissime da dire. Si può parlare nella propria lingua, con le proprie espressioni, senza il timore di non essere capiti.

Secondo, in molti casi condividono la medesima provenienza culturale. Capiscono contesti, riferimenti, dinamiche sociali che potrebbero essere oscure a chi viene da un background completamente diverso. Non serve spiegare cose che per chi viene dalla stessa cultura sono ovvie.

Terzo, spesso hanno attraversato percorsi migratori simili e a volte esperienze analoghe. C'è una comprensione implicita, un "so cosa significa" che non ha bisogno di essere esplicitato. E questa comprensione condivisa può creare un ponte di fiducia rapidissimo.

Ma questa posizione privilegiata porta con sé una responsabilità enorme. Perché quando qualcuno si apre, rivela traumi, chiede aiuto, bisogna sapere cosa fare. Non si può improvvisare.

Il Primo Soccorso Psicologico per i Mediatori

Per questo è molto importante che i mediatori, esattamente come altri operatori umanitari, applichino l'approccio incentrato sulla persona sopravvissuta utilizzando gli strumenti più adeguati a dare sostegno quando qualcuno racconta cosa ha vissuto.

Il primo soccorso psicologico è uno strumento semplice e di uso immediato che i mediatori possono utilizzare per dare supporto a una persona che rivela loro la violenza subita e i problemi conseguenti.

Le quattro fasi del primo soccorso psicologico – preparati, osserva, ascolta, metti in contatto – prevedono che i mediatori:

Siano preparati sui servizi del territorio a cui inviare o accompagnare le persone sopravvissute. Non basta dire "ci sono dei servizi". Bisogna sapere quali sono, dove sono, come funzionano, chi contattare, quali documenti servono, in che lingue operano.

Sappiano osservare e riconoscere segni – senza però ricercare proattivamente persone sopravvissute a violenza – che possono indicare uno stato emotivo di dolore e disagio, una condizione fisica e sociale che necessitano di intervento e sostegno. Notare senza investigare. Essere disponibili senza essere invadenti.

Sappiano ascoltare quello che la persona sopravvissuta vuole dire – i suoi bisogni, le paure, i desideri – in modo da poter dare informazioni adeguate e opportune sui servizi disponibili. Ascoltare veramente, non solo aspettare il proprio turno per parlare o dare consigli.

Quando richiesto esplicitamente, possano collegare le persone sopravvissute ai servizi richiesti, anche accompagnandole personalmente se da loro richiesto per aiutarle con le pratiche di accesso. Essere ponte non solo linguistico ma anche pratico, fisico, di accompagnamento reale nei luoghi dove si trova aiuto.

Regole Basilari per il Lavoro Condiviso

Quando i mediatori lavorano in condivisione con altre operatrici, operatori e professionisti nel supporto alle persone sopravvissute a violenza di genere, devono fare attenzione a rispettare alcune regole basilari.

Il rispetto di queste regole è utile e raccomandato contemporaneamente su più livelli. Non sono burocrazia inutile o vincoli che limitano l'azione. Sono protezioni che servono a tutti.

Migliora il lavoro di squadra perché traccia dei limiti reciproci tra colleghi, regolando le modalità di collaborazione e le responsabilità. Ognuno sa cosa può e deve fare, cosa spetta ad altri, dove finisce il proprio ruolo e comincia quello di qualcun altro.

Permette di gestire adeguatamente le situazioni più complesse perché queste regole forniscono un punto di riferimento semplice da applicare e sicuro. Quando si è sotto stress, quando una situazione è critica, quando non si sa cosa fare, avere linee guida chiare fa la differenza tra agire efficacemente e andare nel panico.

Aiuta a far sì che il proprio operato non arrechi ulteriori danni o esponga ad altri rischi le persone sopravvissute a violenza. Il principio del "non arrecare danno" non è automatico. Richiede consapevolezza, competenza, regole chiare da seguire.

Aiuta e tutela le persone sopravvissute perché prevede trasparenza su ciò che si può e non si può fare, protegge la riservatezza dei dati sensibili e attiva percorsi virtuosi di supporto.

Protegge anche i mediatori stessi da situazioni in cui potrebbero trovarsi esposti a responsabilità che non gli competono, a richieste impossibili da soddisfare, a conflitti etici difficili da gestire.

La Solitudine della Prima Linea

C'è un aspetto del lavoro dei mediatori linguistico-culturali che raramente viene esplicitato ma che è cruciale: la solitudine della posizione in prima linea.

Spesso lavorano da soli, senza supervisione immediata, in contesti dove sono gli unici che parlano quella lingua, gli unici che capiscono quella cultura. Quando qualcuno rivela loro una violenza, devono decidere sul momento come reagire, cosa dire, cosa fare.

E dopo? Dopo aver ascoltato storie traumatiche, dopo aver visto sofferenze terribili, dopo aver fatto da ponte tra mondi così diversi e a volte così dolorosi, dove trovano supporto loro stessi?

Il rischio del trauma secondario o vicario è altissimo per i mediatori. Sono esposti continuamente a storie di violenza, spesso nella propria lingua madre, raccontate da persone con cui condividono riferimenti culturali. L'impatto emotivo può essere devastante.

Per questo è fondamentale che le organizzazioni che impiegano mediatori linguistico-culturali prevedano spazi di supervisione, di supporto psicologico, di confronto tra pari. Non possono essere lasciati soli a gestire il peso emotivo di questo lavoro.

Conclusione: Onorare la Fiducia

Quando una persona che ha subito violenza si apre con un mediatore linguistico-culturale, sta compiendo un atto di coraggio e di fiducia enorme. Sta dicendo: "Ti racconto questa cosa terribile nella nostra lingua comune, sperando che tu mi capisca e mi aiuti."

Quella fiducia è un dono prezioso e fragile. Può essere onorata solo attraverso competenza professionale, rispetto rigoroso dei principi guida, consapevolezza dei propri limiti e pregiudizi, impegno costante a mettere il benessere della persona sopravvissuta prima di qualsiasi altra considerazione.

I mediatori linguistico-culturali sono in prima linea. Ed è una posizione di grande responsabilità. Ma quando quella responsabilità viene assunta con serietà, preparazione e umanità, può fare la differenza tra una persona che rimane intrappolata nel silenzio della violenza e una persona che trova finalmente la strada verso la sicurezza e la guarigione.

Per le organizzazioni che impiegano mediatori linguistico-culturali: come vengono supportati emotivamente questi professionisti che stanno in prima linea nell'ascolto di traumi e violenze?

Bibliografia

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