L'Etichetta che Diventa Identità: Quando le Parole Creano la Realtà
"Tu sei timido", "Sei sempre il solito pigro", "Non sei portato per la matematica". Quante volte abbiamo sentito frasi del genere? E quante volte, senza accorgercene, queste etichette sono diventate parte di ciò che crediamo di essere?
Francesco Gardona
11/2/20255 min leggere
Labeling theory
Negli anni '60, il sociologo Howard Becker pubblicò un'opera rivoluzionaria intitolata "Outsiders", in cui elaborava quella che oggi conosciamo come teoria dell'etichettamento (labeling theory). La sua intuizione, apparentemente semplice ma profondamente sovversiva, era questa: non sono le persone a essere devianti di per sé, ma è la società che crea la devianza attraverso le etichette che attribuisce ai comportamenti.
Questa prospettiva, nata nello studio della criminalità e del disagio sociale, ha implicazioni che vanno ben oltre quegli ambiti specifici. Riguarda tutti noi, nelle nostre relazioni quotidiane, nel modo in cui parliamo di noi stessi e degli altri.
Come Nasce un'Identità Deviante
Becker e il suo gruppo di ricerca compirono uno spostamento di focus fondamentale: smisero di chiedersi "perché questa persona è deviante?" e cominciarono a chiedersi "come la società costruisce e mantiene la devianza?"
La loro risposta fu tanto chiara quanto inquietante: il contesto sociale determina normativamente ciò che è deviante e ciò che non lo è. Non esiste un comportamento intrinsecamente "sbagliato" o "anormale" in astratto – è la comunità che produce definizioni, che crea etichette per classificare i comportamenti delle persone.
Ma quello che accade dopo è ancora più significativo: queste etichette non rimangono semplici descrizioni esterne. Vengono interiorizzate dalla persona, diventano parte della sua identità, e finiscono per determinare i comportamenti futuri.
È un circolo che si autoalimenta: la persona viene etichettata come "deviante", interiorizza questa definizione ("sono un deviante"), e conseguentemente si comporta in modo coerente con l'etichetta ricevuta. L'etichetta diventa una profezia che si autoavvera.
Dal Crimine alla Vita Quotidiana
Gli studi originali di Becker si concentravano su criminali e tossicodipendenti. Ma se allarghiamo lo sguardo – come fa la psicologia contemporanea – scopriamo che questo meccanismo opera in ogni contesto in cui attribuiamo etichette identitarie alle persone.
Pensiamo all'ambito scolastico. Quando un ragazzo viene definito "somaro", questa non è una semplice constatazione delle sue prestazioni attuali. È un'etichetta che, una volta attribuita e interiorizzata, condiziona profondamente il modo in cui quella persona ragiona su se stessa.
Il ragazzo comincia a pensare: "Sono un somaro". E da questo pensiero discendono una serie di conseguenze: "Non ha senso che mi impegni", "Tanto non ci riuscirò mai", "Non sono fatto per studiare". L'etichetta genera un'identità, l'identità genera aspettative, le aspettative generano comportamenti che confermano l'etichetta iniziale.
Lo stesso vale per etichette apparentemente più neutre o persino positive: "Sei timido", "Sei il clown della classe", "Sei quello preciso", "Sei la brava ragazza". Ognuna di queste definizioni, quando viene interiorizzata, vincola la persona a comportarsi in modo coerente con l'etichetta ricevuta.
Auto-Etichettamento: Quando Siamo Noi i Nostri Peggiori Giudici
Il meccanismo dell'etichettamento non richiede necessariamente che sia qualcun altro ad applicarci l'etichetta. Spesso siamo noi stessi i più efficaci etichettatori di noi stessi.
"Sono timido", "Sono pigro", "Sono incapace", "Sono demotivato", "Sono inadeguato" – quante volte ci definiamo così? E quanto queste auto-definizioni condizionano poi concretamente il nostro modo di agire?
Quando una persona passa dall'agire all'essere – quando cioè passa dal "mi sono comportato in modo timido in quella situazione" a "sono una persona timida" – l'etichetta diventa identitaria. E a quel punto diventa estremamente difficile da modificare.
Le concezioni di sé si radicalizzano, si cristallizzano. Diventiamo prigionieri delle nostre stesse definizioni.
La Distinzione Cruciale: Essere vs. Agire
Ed è qui che arriviamo al punto cruciale, all'invito pratico che questa riflessione ci offre: dobbiamo imparare a distinguere tra l'essere e l'agire, tra l'identità e il comportamento.
Questa distinzione non è un mero gioco di parole. Ha conseguenze pratiche profonde, sia quando parliamo di noi stessi, sia quando ci relazioniamo con gli altri – come genitori, insegnanti, colleghi, o semplicemente come persone che hanno una qualche "posizione di potere" (inteso come possibilità di influenzare) in una dinamica relazionale.
Facciamo un esempio concreto. Un ragazzo che si comporta in modo aggressivo a scuola:
Approccio identitario (etichettante): "Tu sei un bullo"
Approccio comportamentale (descrittivo): "Ti sei comportato da bullo in quella situazione"
La differenza può sembrare sottile, ma è abissale. Nel primo caso, stiamo definendo l'essenza della persona. Nel secondo, stiamo descrivendo un comportamento specifico in un contesto specifico.
Perché il Comportamento È Più Modificabile dell'Identità
C'è una ragione pragmatica per cui questa distinzione è così importante: è molto più facile cambiare un comportamento che cambiare un'identità.
Dal punto di vista logico e psicologico, passare da "sono un bullo" a "non sono un bullo" richiede una trasformazione identitaria radicale. È un passaggio binario, tutto o niente, che la persona percepisce come pervasivo, totale, quasi impossibile.
Passare invece da "mi comporto da bullo" a "non mi comporto più da bullo" è un cambiamento di azione, qualcosa di esterno, di gestibile, di modificabile passo dopo passo. Il comportamento può essere lavorato, modulato, trasformato – l'identità sembra invece qualcosa di fisso, immutabile.
Quando diciamo a qualcuno (o a noi stessi) "sei fatto così", stiamo comunicando un messaggio implicito devastante: "non puoi cambiare, è la tua essenza". Quando invece diciamo "ti sei comportato così", lasciamo aperta la possibilità di agire diversamente la prossima volta.
Un Invito Pratico: Vigilare sul Nostro Linguaggio
L'invito che emerge da questa riflessione è chiaro: dobbiamo prestare attenzione al linguaggio che usiamo, sia con gli altri che con noi stessi.
Quando ci troviamo a dialogare con persone che tendono ad attribuire etichette identitarie – o quando siamo noi stessi a farlo – possiamo esercitare una piccola ma potente forma di resistenza: riformulare in termini comportamentali.
Non "sei pigro", ma "in questa situazione hai agito in modo poco proattivo". Non "sono un incapace", ma "non sono ancora riuscito in questo compito specifico". Non "è timido", ma "in quel contesto ha manifestato timidezza".
Può sembrare pedante, all'inizio. Ma questo spostamento linguistico opera una trasformazione profonda nella realtà che costruiamo attraverso le parole. Mantiene aperta la possibilità del cambiamento. Preserva la complessità della persona al di là di ogni singola etichetta.
La Prospettiva Interazionista: Costruttori di Realtà attraverso il Linguaggio
Questa intuizione della teoria dell'etichettamento trova una perfetta consonanza con i principi della psicoterapia interazionista. Entrambi gli approcci riconoscono che "dire è fare": il linguaggio non si limita a descrivere la realtà, ma attivamente la costruisce.
Quando etichettiamo qualcuno (o noi stessi), non stiamo semplicemente riportando un fatto oggettivo. Stiamo creando una realtà sociale che avrà conseguenze concrete sul comportamento futuro. Stiamo partecipando alla costruzione dell'identità di quella persona.
E se il linguaggio costruisce la realtà, allora possiamo usarlo anche per de-costruire le etichette limitanti e co-costruire narrazioni più aperte, più ricche di possibilità, meno vincolanti.
Conclusione: Liberarsi dalle Etichette
L'identità e i comportamenti degli individui possono essere profondamente determinati e influenzati dai termini utilizzati per descriverli e classificarli. Questo era il fondamento della teoria dell'etichettamento di Becker, e rimane una verità psicologica e sociale di grande attualità.
Ma proprio perché le etichette hanno questo potere, abbiamo anche la responsabilità – e la possibilità – di usarle con consapevolezza, o meglio ancora, di sostituirle con descrizioni comportamentali che mantengano aperto lo spazio del cambiamento.
La prossima volta che vi sentite tentati di dire (a voi stessi o ad altri) "sei fatto così", provate a riformulare: "ti sei comportato così". La prossima volta che un'etichetta identitaria sta per cristallizzarsi ("sono timido", "sono incapace"), provate a trasformarla in un'osservazione comportamentale ("in quella situazione ho agito con timidezza", "non sono ancora riuscito in quel compito").
È un piccolo spostamento linguistico. Ma può aprire mondi di possibilità.
E voi? Quali etichette vi portate addosso? Quali avete interiorizzato fino a considerarle parte immutabile di voi stessi? E soprattutto: siete sicuri che descrivano chi siete davvero, o descrivono semplicemente come vi siete comportati in alcuni momenti della vostra vita?
Bibliografia
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