Osservare, Ascoltare, Connettere: Il Primo Soccorso Psicologico per Chi Ha Subito Violenza

Una persona si avvicina, sembra turbata. O forse appare stranamente indifferente. Sta per raccontare qualcosa di difficile, o forse lo ha già fatto a qualcun altro che ora viene a riferirlo. Come ci si comporta? Cosa si dice? E soprattutto, cosa non si deve assolutamente fare?Il primo soccorso psicologico per persone sopravvissute alla violenza di genere non è improvvisazione. È un protocollo strutturato che, dopo la fase preparatoria, si articola in tre momenti cruciali: osservare, ascoltare e mettere in contatto con i servizi. Ogni fase ha le sue regole, i suoi "da fare" e "da non fare", le sue attenzioni specifiche.

Francesco Gardona

11/20/20258 min leggere

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La Fase dell'Osservazione: Vedere Senza Presumere

Quando si lavora a diretto contatto con persone migranti e rifugiate che spesso hanno alle spalle percorsi di vita complessi, osservare attentamente diventa fondamentale. Ma osservare non significa investigare. Significa prestare attenzione agli elementi rilevanti della situazione contestuale e individuale, con l'obiettivo di offrire supporto se opportuno.

E qui sta il primo punto cruciale: non dare mai per scontato che la persona che si ha davanti abbia effettivamente un problema o che abbia subito violenza. Si osserva, si nota, si resta disponibili. Ma non si presume, non si etichetta, non si forza.

Un altro elemento fondamentale dell'osservazione riguarda le reazioni. Non esiste un modo "giusto" o "sbagliato" di reagire alla violenza o ad altre situazioni complesse. Ogni individuo reagisce in modi diversi alle situazioni di stress acuto o potenzialmente traumatiche.

Alcune persone rimangono calme, apparentemente impassibili. Altre si arrabbiano, esplodono, gridano. Altre ancora si colpevolizzano, si chiudono in se stesse, appaiono indifferenti o distaccate. Nessuna di queste reazioni è "inappropriata" o indica che la violenza non sia stata grave. Sono semplicemente modi diversi di gestire il trauma.

Di fronte a una persona che ha subito stress acuto o un'esperienza potenzialmente traumatica, la priorità è dare immediata risposta alle esigenze primarie, identificandole insieme alla persona stessa. Per chi ha subito violenza sessuale, per esempio, la cura e l'igiene personale possono risultare particolarmente importanti. Poter fare una doccia, cambiarsi i vestiti, sentirsi puliti può essere un bisogno urgente e psicologicamente significativo. Così come avere accesso alle cure mediche quando necessario.

In questa fase di primo approccio, bisogna assicurare alla persona uno spazio sicuro che le permetta di sentirsi a suo agio e di fidarsi di chi la sta assistendo. Ma questo diventa complesso in contesti affollati come uno sbarco, un campo profughi, un centro di prima accoglienza.

In queste situazioni, la discrezione diventa ancora più importante. Gli operatori devono evitare che le persone sopravvissute a violenza di genere vengano stigmatizzate ed esposte ad ulteriori rischi. Quindi è necessario essere discreti e non invasivi, trovare modi naturali per interagire senza mettere la persona a disagio o a rischio.

Si possono utilizzare momenti come la distribuzione di materiali igienici per donne o bambini, una visita medica, o altre attività routinarie per interagire con la persona senza attirare attenzione speciale su di lei. È un equilibrio delicato: essere disponibili senza essere invadenti, essere attenti senza essere evidenti.

Cosa Fare e Non Fare nell'Osservazione

Nella fase di osservazione, ci sono linee guida chiare. Dare alla persona la possibilità di avvicinarsi, non cercarla attivamente. Ascoltare i suoi bisogni quando si avvicina. Non ignorare mai chi si avvicina per condividere di aver vissuto un'esperienza negativa, qualcosa che l'ha messa a disagio, una brutta situazione o una violenza.

Chiedere come si può fornire supporto per qualsiasi tipo di bisogno urgente di base. Alcune persone sopravvissute possono avere bisogno immediato di cure mediche, di un posto sicuro dove stare, di contattare qualcuno.

Chiedere sempre se la persona si sente a suo agio a parlare lì dove ci si trova. Anche se è accompagnata da qualcuno, non supporre che per lei vada bene parlare della sua esperienza davanti all'accompagnatore. Potrebbe sentirsi a disagio, potrebbe non essere sicuro, l'accompagnatore stesso potrebbe essere coinvolto nella violenza.

Non reagire in maniera eccessiva, per quanto scioccante possa essere ciò che si viene a sapere. Mantenere la calma è fondamentale. La persona che racconta ha bisogno di stabilità, non di vedere l'operatore che perde il controllo emotivo.

Fornire aiuto pratico e concreto: acqua, uno spazio appropriato in cui sedere, un fazzoletto, una coperta. Questi gesti semplici comunicano cura e attenzione.

Non forzare mai la persona a condividere più informazioni di quelle che voglia rivelare. I dettagli su cosa sia successo e per mano di chi non sono rilevanti per il ruolo di chi fornisce primo soccorso psicologico, il cui compito è ascoltare e fornire informazioni sui servizi disponibili, non investigare.

Se possibile, chiedere alla persona di scegliere qualcuno con cui si sente a suo agio e che possa tradurre o fornire supporto se necessario. Non imporre un traduttore o un mediatore che la persona non conosce o di cui non si fida.

E assolutamente non chiedere mai in modo inquisitivo e diretto se qualcuno ha subito stupri, percosse o altre violenze. Queste domande dirette possono essere retraumatizzanti e violano il principio del rispetto per i tempi e le scelte della persona.

La Fase dell'Ascolto: Lo Spazio per Esprimersi

È nella fase dell'ascolto che la persona sopravvissuta può scegliere di raccontare delle violenze subite. E per che il supporto sia efficace, è necessario che possa esprimersi liberamente.

Questo significa evitare di interromperla, di assumere un atteggiamento inquisitorio o giudicante. Si dà alla persona lo spazio per condividere le informazioni che si sente in grado di comunicare, poche o tante che siano.

È buona prassi mantenere un tono di voce pacato, adottare un atteggiamento calmo, utilizzare frasi di supporto. "Ti ascolto", "Hai fatto bene a dirlo", "Non è colpa tua", "Sono qui per aiutarti". Frasi semplici che comunicano presenza, accoglienza, non giudizio.

La caratteristica fondamentale del lavoro degli operatori in questa fase è l'ascolto attivo: non solo sentire le parole, ma prestare attenzione al linguaggio del corpo, alle emozioni, a ciò che viene detto e a ciò che rimane non detto.

La trasparenza è fondamentale. Gli operatori devono sempre spiegare chiaramente quali siano le funzioni e i limiti del loro ruolo per evitare di creare false aspettative o di fare promesse che non possono essere mantenute. "Il mio ruolo è ascoltarti e aiutarti a trovare i servizi appropriati. Non posso fare X, ma posso fare Y."

Cosa Fare e Non Fare nell'Ascolto

Nella fase di ascolto, la riservatezza diventa ancora più critica. Trattare ogni informazione condivisa con la massima riservatezza. Se serve suggerimento o guida su come supportare meglio la persona, chiedere il suo permesso prima di rivolgersi a uno specialista o a un collega, facendolo senza rivelare dettagli che potrebbero identificarla.

Non scrivere tutto, non fare fotografie, non registrare la conversazione sul cellulare o altro dispositivo, non informare altri, inclusi i mass media. Queste azioni violerebbero gravemente la riservatezza e potrebbero esporre la persona a rischi enormi.

Se rilevante nella situazione specifica, esplicitare quali siano i limiti della riservatezza. Ci sono situazioni in cui vi è l'obbligo di segnalare alle autorità competenti determinate tipologie di casi. Questo deve essere comunicato chiaramente, non nascosto per poi sorprendere la persona in seguito.

Non porre domande su cosa sia successo in maniera inquisitoria. Non è un interrogatorio. Non serve ricostruire ogni dettaglio. Serve ascoltare ciò che la persona vuole condividere, nei modi e nei tempi che sceglie lei.

La Fase del Mettere in Contatto: Connettere con i Servizi

La terza fase è quella di invio o "mettere in contatto" con i servizi appropriati. Gli operatori sono tenuti a fornire informazioni accurate e complete sui servizi disponibili per rispondere alle esigenze della persona sopravvissuta.

Se sprovvisti di alcune informazioni rilevanti, devono reperirle prontamente, informando con chiarezza la persona. Il ruolo è quello di supportare la persona nelle proprie decisioni e scelte, non di decidere per lei.

Ottenere il consenso informato è uno dei passaggi fondamentali. Come definito nei moduli precedenti, il consenso informato è l'adesione consapevole a un percorso proposto da parte di una persona che ha la capacità e la maturità di comprendere le opzioni disponibili e scegliere o meno di usufruire di un servizio.

Il consenso deve sempre essere ottenuto prima di inviare la persona verso uno o più servizi. E se la persona rifiuta, è importante mantenere un atteggiamento non giudicante, informarla delle modalità di accesso ai servizi e della possibilità di accedervi anche in un secondo momento.

Nel caso in cui una persona abbia subito violenza sessuale, è importante fornire informazioni aggiuntive e specifiche: sulla contraccezione d'emergenza (entro 72-120 ore a seconda del tipo), sulla profilassi post-esposizione per HIV (entro 72 ore), sulla possibilità di raccogliere prove forensi (preferibilmente entro 72 ore), sui servizi di supporto psicologico specializzato.

Cosa Fare e Non Fare nel Mettere in Contatto

Rispettare sempre il diritto della persona a prendere le proprie decisioni. Non ingigantire le proprie competenze, non fare false promesse, non fornire informazioni errate. È meglio dire "non lo so, ma posso informarmi" piuttosto che dare informazioni sbagliate.

Spiegare che non deve prendere tutte le decisioni immediatamente e che può cambiare idea e fare uso dei servizi in futuro. La pressione temporale può essere paralizzante per chi è in uno stato di shock o trauma.

Non dare mai per scontato di conoscere i desideri e i bisogni di qualcuno. Determinate azioni possono causare ulteriori problemi e rischi: stigma, ritorsioni, danni. Solo la persona stessa può valutare quali rischi è disposta a correre.

Chiedere se ha vicino qualcuno di cui si fida, e se sì, aiutarla a contattare quella persona. Ma non fare supposizioni su nessuno e sulle sue esperienze personali.

Non cercare mai di mediare, far riconciliare o risolvere conflitti tra una persona sopravvissuta e terze persone. Non è questo il ruolo, e può essere estremamente pericoloso.

Chiedere il consenso informato prima di intraprendere qualsiasi azione che riguardi la persona. Spiegare con chiarezza quando si è obbligati a condividere le informazioni e con chi. Informare su come e quando lo si farà.

Non condividere mai con nessuno i dettagli di quanto avvenuto e le informazioni che potrebbero identificare la persona, compresi i parenti, le forze di sicurezza, colleghi, supervisori. La condivisione di queste informazioni può causare danni ulteriori gravissimi.

Concludere la conversazione con parole di supporto. "Grazie per aver avuto il coraggio di parlare", "Hai fatto la cosa giusta", "Sono qui se hai bisogno in futuro".

E infine, non chiedere dettagli personali, non contattare la persona senza accordo preventivo, non insistere per rimanere coinvolti nella sua presa in carico quando esula dal proprio ruolo.

Prendersi Cura di Chi Si Prende Cura

Un'ultima considerazione fondamentale: ascoltare esperienze di violenza ha un impatto emotivo su chi ascolta. Questo fenomeno è noto come trauma secondario o trauma vicario.

Pur agendo nel modo più accurato possibile, non si potrà cambiare il vissuto della persona che si sta supportando o far scomparire il suo dolore. E l'esposizione ripetuta a storie dolorose o traumatiche può avere conseguenze psicologiche significative su chi le ascolta.

Per questo prendersi cura di sé stessi è molto importante e consente di poter aiutare al meglio gli altri. A seguito dell'emersione di un atto di violenza, si può e si deve parlare con il proprio team, chiedere supporto al proprio sistema e network di supporto, inclusi colleghi, supervisori o specialisti di violenza di genere, per fare un debrief sulla conversazione – ovviamente senza mai dimenticare il dovere di riservatezza nei confronti della persona sopravvissuta.

Non è debolezza chiedere aiuto. È professionalità riconoscere i propri limiti e prendersi cura della propria salute mentale per poter continuare a fare questo lavoro difficile ma fondamentale.

Conclusione: Il Flusso del Supporto

Il primo soccorso psicologico per persone sopravvissute alla violenza di genere non è un atto eroico isolato. È un protocollo strutturato che fluisce attraverso fasi precise: prepararsi, osservare, ascoltare, connettere con i servizi.

In ogni fase, i principi guida rimangono gli stessi: sicurezza, riservatezza, rispetto, non discriminazione. E in ogni fase, l'obiettivo non cambia: supportare la persona nel suo percorso, rispettando i suoi tempi e le sue scelte, senza sostituirsi a lei nelle decisioni, senza arrecare ulteriore danno.

È un lavoro delicato, che richiede competenza tecnica e sensibilità umana. Ma è anche un lavoro che può fare una differenza enorme nella vita di chi ha subito violenza: la differenza tra sentirsi ancora più soli e vulnerabili, o sentire che c'è qualcuno che ascolta, che crede, che supporta.

Per chi lavora con persone vulnerabili: come ci si sta prendendo cura di sé mentre si prende cura degli altri?

Bibliografia

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